La comunità del «comandamento nuovo»

 Nell’Ultima Cena Gesù donò ai suoi un comandamento nuovo, il comandamento dell’amore fraterno vissuto fino al dono della vita, sul suo esempio. Questo amore nuovo si chiama «agape»: celebrato nell’Eucaristia si riversa sulla vita della comunità, trasformando famiglie e persone perché la vita sia «piena» per ogni uomo.

 

Alla fine dell’Ultima Cena vissuta con i suoi discepoli, dopo aver lavato loro i piedi e aver condiviso con loro pane e vino, Gesù offre il suo testamento: «Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 13,34).

I Dodici conoscevano i comandamenti, conoscevano anche tutto ciò che Gesù aveva offerto come completamento e pienezza della legge antica… eppure qui c’è un «comandamento nuovo».

Dove si pone questa novità? Sapevano di un amore chiamato a raggiungere il cuore dell’uomo, là in profondità dove si giocano le grandi scelte; sapevano di un amore che doveva diventare capacità di offrire con generosità ai fratelli, senza resistenze e senza pau-ra; sapevano di un amore che deve allargarsi per raggiungere ogni uomo, anche il lontano, il diverso e, perfino, il nemico. Eppure c’è spazio ancora per una novità: la realtà di un amore che arriva fino al dono totale di sè per il bene del fratello, un amore che arriva fino alla morte.

E il modello è Gesù Cristo stesso: lui che non ha paura di chiamare Giuda «amico», lui che non si vergogna di lavare i piedi ai suoi, lui che offre la sua vita anche a chi non la meriterebbe.

Il modello è quell’amore che l’Eucaristia ci fa continuamente celebrare; un amore che arriva fino alla croce. E’ l’agape, amore gratuito senza interessi, libero dalla preoccupazione di essere ricompensato o contraccambiato. Agape è dono totale.

Ecco, Gesù offre ai suoi e alla comunità cristiana che, per sempre, celebra Eucaristia, questo comandamento nuovo: ad esso la comunità si dovrà ispirare e su di esso si dovrà verificare e costruire: nasce così una Chiesa caratterizzata dall’agape. E’ il superamento di una religiosità basata sulla fedeltà fredda ed esteriore alla legge; il superamento di una fedeltà che non coinvolge profondamente e che, anzi, arriva all’assurdo di costringere a scegliere tra Dio e il fratello… per arrivare ad una religiosità che misuri la fedeltà a Dio nei parametri della fedeltà ai fratelli. La «novità» sta esattamente qui: donare la vita ai fratelli è donarla a Dio, essere dalla parte dei poveri è essere dalla parte di Dio, morire per amore perdonando il nemico è il culto più grande che possiamo offrire a Dio.

Ma cosa vuol dire, più precisamente una comunità che è permeata dall’agape?

 

Comunità senza barriere

 

Una comunità che supera il legalismo farisaico, non si limita cioè a concepire la fede come gesto freddo di chi, obbedendo a canoni e rubriche, si sente «a posto» e neppure legge la sua fedeltà a Cristo come fedeltà rituale a gesti e liturgie che finiscono inevitabilmente per restare aridi e poco coinvolgenti.

In questo senso, una comunità che assume l’agape non può essere una comunità che, esaurita la celebrazione domenicale o quell’appuntamento di preghiera di tanto in tanto, sente di aver adempiuto al suo dovere e di aver messo a posto Dio. Neppure potrà essere quella comunità che si misura unicamente con il non uccidere, non rubare, e così finisce sempre per ammettere che «tutto sommato non siamo lontani dal Vangelo».

Una comunità mossa dall’agape è una comunità «irrequieta» nel senso che è una comunità che si spinge continuamente oltre, non si accontenta di ciò che fa ma sempre crea gesti e segni nuovi perchè sente che l’amore non si misura nè si calcola: una comunità che, ogni giorno, raccoglie dall’amore vissuto e dal servizio reso forza ed entusiasmo per altro amore e per altro servizio, in un cammino che non si esaurisce e non si compie se non nella pienezza del Regno, là dove veramente immersi nell’agape di Dio saremo anche noi diventati agape.

Una comunità senza barriere. Voglio dire una comunità che prova interesse per la vicenda degli uomini di oggi, una comunità che non si chiude sulle proprie vicende, sulle proprie attività, sui propri problemi, sulle spese da fare e le migliorie da apportare agli edifici parrocchiali… ma che diviene attenta ai problemi e alle urgenze dell’umanità intera; una comunità che si rende conto che c’è qualcuno che è più povero, più bisognoso e che ha più urgenza di essere sostenuto ed aiutato.

 

Scelte per gli ultimi

 

L’agape è amore universale, è desiderare il bene per ogni uomo, soprattutto per gli ultimi, i lontani e quanti mancano dell’essenziale. Un amore così spinge la comunità a fare le sue scelte da una parte di rinuncia e privazione di tutto ciò che sa di privilegio e di mentalità borghese e, dall’altra, di generosa solidarietà per ogni forma di povertà e di bisogno.

Una comunità accogliente, capace di farsi carico delle situazioni di abbandono e di emarginazione in cui versano tanti fratelli e sorelle e tante situazioni di dolore, di croce e tanti altri problemi.

Una comunità che accoglie non è solo quella che – se ne ha la possibilità – apre le porte ai terzomondiali o agli albanesi, ma è anche quella comunità che ne accoglie il problema, ne parla, si interroga, ci prega, offre il suo contributo per una ricerca di linee di verità e giustizia. L’accoglienza è essenzialmente un atteggiamento del cuore e non semplicemente questione di avere case vuote e appartamenti sfitti che possono anche non servire a nulla se non c’è una disponibilità del cuore all’accoglienza.

Inevitabilmente, una comunità di agape è anche espressione di famiglie-agape e di uomini e donne agape. Ecco perchè la formazione e la realtà di una comunità così è il risultato del cammino di individui e di famiglie che hanno preso sul serio la celebrazione dell’Eucaristia e l’hanno fatta diventare ragione di vita e modello per orientamenti e scelte.

A livello individuale e personale credo che nell’agape sia quella persona che non cerca il potere ma il servizio, che non cerca l’onore e l’autorità ma l’ultimo posto nell’amore nascosto ed efficace. E’ quella persona che fa della croce, come realtà di amore fino alla fine, fino all’impossibile, la sua ragione di vita perchè in essa vede non l’annientamento dell’uomo ma la sua profonda esaltazione.

E’ colui che da figlio o da genitore, da coniuge o da parente, da vicino di casa o da collega di lavoro, sa esprimere la sua presenza con amore e bontà, mai ripiegato su se stesso, ma attento alla realtà di chi gli sta intorno per cercare di comprendere, di sostenere e di favorire la crescita dell’altro e perchè possa essere felice di dividere un po’ di tempo, o un’esperienza o tutta  una vita con lui.

Famiglie agape sono quelle che, nell’interno dei loro rapporti, sanno essere e divenire continuamente dono reciproco, senza vergogna e senza antagonismi, accettando che la ricchezza di uno colmi la povertà degli altri, con libertà e con gioia.

 

Famiglie affezionate alla vita

 

Famiglie agape sono quelle che sanno misurare la grandezza e la validità della vita non a partire dalle cose o dal denaro, ma dai valori che si condividono e che si vogliono affermare, anche se si è costretti a lottare da soli o con pochi altri.

Famiglie agape sono quelle che, senza togliere nulla all’amore umano, sanno portarlo a compimento perchè ogni gesto diventa dono, offerta, possibilità di dire dell’amore che ci si porta dentro e che si vuole donare agli altri.

Famiglie agape sono quelle affezionate alla vita, alla gioia, alla speranza… sono quelle che sanno accogliere dentro le proprie mura anche la sofferenza e l’anzianità ed essere luoghi di consolazione e di speranza… sono quelle che, quando vi entri, ti fanno sentire bene, perchè ti senti atteso e accolto con pazienza e con amore.

L’agape è veramente qualcosa di divino, qualcosa che fa grande, che qualifica, è davvero l’amore stesso di Dio che è comunicato a noi perchè anche noi, nell’agape, possiamo recuperare la nostra identità e rispondere in pienezza alla chiamata ad essere simili a lui

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