Vogliamo prima di tutto, chiarirci un po’ i termini. «Spiritualità»: fa riferimento alla fede e a un certo modo di vivere la dimensione di fede. Ma se, fino a qualche tempo fa, questo ha sempre voluto dire una dimensione ascetica e mistica dell’uomo che si pone alla ricerca di Dio per vie e con strumenti che vanno oltre l’uomo così da contrapporre l’uomo spirituale all’uomo secondo la carne, oggi si è maturata la certezza che l’uomo spirituale è un uomo profondamente inserito e radicato dentro il suo essere corpo, realtà sociale, storica, con riflessi anche tecnologici ed ecologici.
Sono lontani i tempi in cui l’uomo per «cercare Dio», doveva abbandonare gli uomini e le loro cose perché questi gli impedivano una seria ed autentica ricerca di Dio. E famoso quel passo della vita di Antonio Abate nel quale il santo, invitato dai suoi discepoli a restare con loro per istruirli e per avviarli alla vita eremitica, così risponde: «Dio sa quanto vi voglio bene, ma non posso stare con voi e con Dio al tempo stesso»… e così si riavviò nel deserto cercando nella solitudine, nell’ascesi e nella penitenza la via della sua scoperta di Dio.
Tutto ciò fa parte ormai di un’altra cultura, anche se si tratta di una cultura che ha permeato la mentalità cristiana per lunghi secoli portando sempre più i cristiani a disincarnarsi dalla vicenda umana e ad assumere il loro inserimento nella storia da «stranieri» e mai da protagonisti, sempre tesi a quell’altro mondo, atteso e sperato che li ha condotti un po’ alla volta a non sentirsi più dentro questo mondo e questa storia.
Certo, l’«uomo secondo lo spirito e secondo la carne» e l’«essere stranieri» sono concetti fondamentali nella Chiesa ancora oggi, ma quello sul quale vorrei invitare a riflettere è che, a mano a mano, questi concetti sono stati travisati sino al punto di contrapporre la carne allo spirito e ad escludere che l’uomo che dedicava la sua vita a Dio potesse continuare e ad interessarsi degli «affari del mondo, della storia, della società».
Un’altra barriera da infrangere è quella che è stata creata tra culto, liturgia e vita. Anche qui si è andati compiendo un cammino di separazione.
L’uomo spirituale è l’uomo che celebra, che vive l’azione liturgica e cultuale. Lunghe orazioni e gesti cultuali consistenti hanno stabilito anche la qualità del cristianesimo, chiese piene, liturgie lunghe… non era importante la qualità della partecipazione e il riflesso che la Parola o il mistero celebrato poteva avere sulla vita, non era importante che si parlasse un linguaggio incomprensibile e il messaggio e la profezia non raggiungessero più nessuno perché nessuno li comprendeva.
Fino a che l’uomo ha capito che non poteva rinunciare al suo essere uomo, al suo essere sociale, al suo essere storia, e ha preteso dalla Chiesa una nuova spiritualità, una nuova liturgia.
Penso che il Concilio Vaticano II, in questo, abbia segnato un grande passo a partire dalla crisi che la storia aveva consegnato alla Chiesa. E così la Chiesa è scesa dalle sue sicurezze, dai suoi sgabelli… e si è rinnovata. Grande evento dello Spirito, il Concilio ha coinvolto la Chiesa in questo rinnovamento in cui, senza rinunciare a nulla della forza della verità che da sempre ha posseduto, essa ha cercato però di incarnarsi dentro quella storia che l’oggi le stava consegnando, tentando di diventare per questa storia, stimolo, profezia, annuncio e denuncia. E così ha capito che, tanto per fare un esempio, il «Beati i poveri» proclamato con forza non poteva lasciarla indifferente di fronte a quella marea di poveri che l’oggi le proponeva, poveri di lavoro, di casa, di dignità, di rispetto… Ha capito che non poteva continuare a costruire una sua storia affianco della storia reale e concreta, ma che in essa si doveva inserire come «sale e luce».
E sono rispuntati i profeti e i martiri, sono cessati i privilegi e sono riprese le incomprensioni e i contrasti con il potere. Sono venuti meno ricchi in chiesa e più poveri ed emarginati. Sono diminuiti i concordati e cresciuto il ruolo della Chiesa come proclamatrice di verità a rischio anche di perdere la faccia.
Evento dello Spirito, sì certamente, perché la Chiesa ha capito che il suo essere spirituale la portava a vivere l’ottica di un Dio compromesso con la storia, appassionato all’uomo e specialmente al debole e allo schiavo. Il Dio d’Israele che aveva suscitato profeti e liberatori, che aveva scosso le logiche dei ricchi e dei buontemponi, che aveva tuonato contro i modi di fare dei potenti e dei forti… La Chiesa non doveva e non poteva dimenticare tutto ciò.
Ecco, credo che dire «spiritualità» sia dire tutta questa verità, di uno stile di vita, di un modo di esistere, di un modo di essere uomini e donne oggi.
E’ avere un cuore con il quale assumere la storia; non in un modo qualsiasi, perché lo fanno tutti, perché è conveniente o più comodo, ma con una grande «ragione»: per vivere il divino dentro la storia, perché a questo ci chiama la nostra adesione a Dio; per vivere la forza della fraternità, della vita, della pace, della giustizia… facendo risuonare con forza questi messaggi e queste profezie, lasciandoli permeare quelle scelte operative concrete che permettono davvero di condurre la storia su nuovi binari.
Allora sì, il Dio della storia continuerà anche oggi a lavorare con l’uomo, a prendersi a cuore e in custodia ogni vivente.
Che te ne fai di un Dio che ti fa passare sopra la storia restandone indifferente e senza farti buttare dentro alle vicende? Sarebbe un Dio sterile e la tua una spiritualità sterile.
Sottolineare poi la dimensione eucaristica della spiritualità, credo che voglia dire «vivere la propria dimensione di cristiani dentro una storia, a partire dall’annuncio che la realtà dell’Eucaristia continuamente offre».
Così allora dall’Eucaristia, celebrazione del Mistero Pasquale, il cristiano è condotto ad andare oltre il fatto celebrativo cultuale e mistico per leggere in esso la sua storia attuale. Una morte che si rinnova in tutte quelle sopraffazioni del debole e del povero nelle ingiustizie tramate contro i miseri, a scapito dei paesi sottosviluppati… una morte che si rinnova nei gesti di emarginazione del «diverso», in tutti i sensi, ancora perpetrate anche nelle nostre civili comunità sociali e cristiane… Ma l ‘Eucaristia è anche, con forza, annuncio della potenza della risurrezione compiuta in Gesù Cristo, e diventa forza di liberazione perché incarica chi la celebra a proclamare salvezza e a darsi da fare perché questa salvezza venga.
L’Eucaristia come annuncio di una vita spesa al servizio dei fratelli, nella gratuità e nella generosità non può lasciare indifferenti, ma chiamerà a offrire se stessi, a rendersi disponibili a tutte quelle forme di servizio possibili in una comunità per il bene di tutti i fratelli.
L’Eucaristia come evento comunitario, realtà celebrata in un contesto ecclesiale, chiama l’uomo a liberarsi da ogni chiusura e ripiegamento su se stesso per renderlo aperto e sensibile agli altri, cosciente che la sua celebrazione mai potrà essere evento intimistico, ma che, viceversa, lo condurrà sempre ai valori della solidarietà, della condivisione, alla creazione di legami più profondi con i fratelli che condividono la sua celebrazione.
L’Eucaristia, vita offerta per ogni uomo, non può non aprire anche alle logiche dell’universalismo e dell’ecumenismo, riconoscendo che ogni uomo è amato intensamente e «fino alla morte» da Dio, in Gesù di Nazaret.
L’Eucaristia come assunzione del segno del pane e del vino, segni quotidiani della vita, spinge a prendere coscienza che il luogo nel quale siamo chiamati a costruire la nostra risposta al Dio dell’amore è il semplice, il normale, il quotidiano…
Ma su ciascuna di queste caratteristiche torneremo in seguito. Ci preme solo per il momento, sottolineare l’urgenza di acquisire una nuova mentalità di celebrazione per suturare quella frattura tra fede e vita, tra celebrazione e quotidiano che spesso rende sterile il culto e generica la vita.