A partire da questo secondo intervento, tentiamo insieme di approfondire, volta per volta, le singole dimensioni della spiritualità eucaristica sulla quale stiamo portando avanti le nostre riflessioni.
Celebrare in verità la morte e la risurrezione di Gesù nell’Eucaristia è, per noi cristiani, leggere tutta la storia alla luce di questo grande evento di salvezza compiuto in Gesù di Nazaret.
Mettiamoci innanzitutto di fronte alla sua morte, la morte di croce, condanna infamante riservata agli schiavi ribelli.
Una condanna che si pone alla conclusione di un ingiusto processo dove i capi religiosi si alleano con quelli politici, stritolando così l’innocente in quegli ingranaggi del potere dove l’equivoco e la viltà sono spesso le uniche cose che contano.
Una condanna fondata su accuse che, prima ancora di condannare Gesù, condannano chi le ha formulate, perché sono frutto di menti chiuse, incapaci di accettare la novità. Gesù è condannato perché ha violato la legge, trasgredendo il sabato, perché ha lottato contro i formalismi, perché ha frequentato gente legalmente riconosciuta «impura», perché si è arrogato i diritti che solo Dio poteva attribuirsi.
La morte dell’Innocente dimostra quanto potenti siano il peccato e la cattiveria dell’uomo, le sue mire di dominio e di sopraffazione.
Ci annuncia che la ricerca di potere, di dominio, di forza, di successo, non possono essere vita perché, in nome di essi, si è anche capaci di dare la morte.
Non possiamo celebrare in verità l’Eucaristia senza sentirci chiamati a operare scelte coraggiose che ci liberino da compromessi con questi meccanismi di morte.
Assumeremo invece uno stile di vita segnato da dinamiche di semplicità, sedendoci volentieri all’ultimo posto, senza sporcarci le mani con tutto ciò che sa di dominio o di desiderio di supremazia, perché questo è contro l’amore e finisce per schiacciare il povero e l’innocente.
Queste scelte conducono a grandi conseguenze a tutti i livelli, in tutte quelle posizioni e responsabilità che la vita e la storia ci hanno chiesto di occupare, «a servizio» degli altri e non «per dominare».
Ma c’è di più.
La morte di Gesù, gradita al Padre, ci annuncia la validità di una vita offerta per i grandi ideali a cui l’umanità tende.
I sapienti possono anche pensare che la croce sia una pazzia, capace di spezzare l’uomo. In realtà la croce spezza sì l’uomo, ma l’uomo chiuso in se stesso, nel suo potere, spezza l’uomo che tende unicamente al dominio.
Per noi invece, essa è segno del coraggio e della creatività dell’amore e dell’offerta che non si ferma neppure di fronte alla persecuzione e alla sofferenza.
Impareremo così ad offrire noi stessi per le cose in cui crediamo, per la pace, la giustizia, la fraternità… e questo ci farà grandi, certi di avere la solidarietà del Padre che gradisce il sacrificio del giusto e lo rende fecondo.
Impareremo a capire che la vita, la novità, il mondo nuovo… passano attraverso la morte, secondo la dura ma efficace legge del seme di frumento.
Diventeremo, insieme con Gesù, servi capaci di inserirsi da servi nella storia diventando, allora sì, protagonisti e costruttori di novità.
Impareremo a capire che la fedeltà alla nostra missione di uomini nuovi in Gesù Cristo comporta la morte. Chi vuol percorrere il cammino di liberazione per sé e per gli altri, sa che deve morire da servo, da profeta, nella libertà e nella beatitudine di un amore che, donandosi, diventa principio di vita.
Nel mattino di Pasqua, è la vita nuova di Gesù che lascia il sepolcro e fa ritorno, da vivente, nella storia.
Annuncio potente di novità e di speranza. Annuncio sconvolgente di una vittoria che da tanto stavamo aspettando e che, finalmente, si è compiuta: la vittoria sul nostro peggior nemico, la morte.
Sì, perché è la morte che ci mette dentro la paura di essere servi, di lottare fino in fondo per ciò che crediamo. Chi può accettare di lasciarsi espropriare così facilmente della vita? Chi può accettare di morire da servo, nell’amore, se non ha la certezza di una «vita risorta»?
Ecco la grande forza della risurrezione di cui l’Eucaristia ci fa fare memoria. La morte è stata vinta, l’ultima parola spetta alla vita, all’amore, alla speranza.
La vita di colui che accoglie questo annuncio è, allora, una vita che lascia spazio all’avventura della speranza.
Speranza come forza che spinge ad affermare la profonda certezza di una storia che ormai è stata salvata e che sta camminando verso il suo pieno compimento.
Per quanto possa essere forte il male e il veleno del mondo, esso non è mai talmente forte da sopprimere la vita.
Ci portiamo dentro la sicurezza che i desideri di pace, di giustizia e di fraternità, si compiranno. Quando? Come? Non ci è dato di conoscerlo ma attendiamo fiduciosi.
E qui, proprio in questo tempo dell’attesa fiduciosa, ci giochiamo la responsabilità della risurrezione. La vita, infatti, passa solo attraverso la disponibilità totale e il dono, proprio come è stato per Gesù di Nazareth, richiamato alla vita dal Padre che ha posto sulla sua esistenza la garanzia che questa sì è una vita che conta, una vita che si porta dentro germi di novità: una vita da servo, nell’amore e nel dono.
Celebrare la risurrezione ci chiama così, con chiarezza, ad essere testimoni nell’amore, a perseverare nel nostro servizio al mondo e ai fratelli perché nessuno si chiuda alla vita.
Ci chiama ad affermare questa buona notizia nelle piccole e grandi cose di ogni giorno dove cresce la nostra voglia di vita, di pace e di giustizia.
Ad affermarla in un’attenzione a quel povero, a quell’anziano, a quell’ammalato… che mi abita vicino ma che faccio fatica a sentire «vicino dentro».
Ad affermarla in una grande passione per la vita dei bambini, dei piccoli… in gesti coraggiosi di disponibilità e di volontariato che mi conducono a dedicare tempo, forze, denaro a chi è più povero di me.
Sono mille i gesti dell’amore, i gesti della vita, i gesti della risurrezione affidati alla nostra immaginazione.
Tutti saranno la certezza che il vero progresso è in quella possibilità di donare noi stessi nella quale si incarna la presenza del Risorto.