E’interessante. Nel Vangelo di Luca (22,1-23), immediatamente prima di riportare il racconto dell’ultima cena di Gesù con i suoi, e subito dopo l’offerta del pane e del vino, c’è un riferimento a Giuda.
C’era anche Giuda, quindi, a cena con Gesù, quella sera. Mi sembra un particolare importante. Con Gesù che offre se stesso, che compie il progetto di amore, che realizza la chiamata del Padre ad essere servo e a donare se stesso… c’è anche colui che ha tradito; colui che mosso da chissà quale ragione, si è opposto al progetto, non ha mai accettato di giocarci dentro la sua vita, non ci ha mai creduto.
C’è anche lui, con il suo animo già invaso dal male, con i suoi calcoli già fatti, con il tradimento già compiuto. E mangia e beve anche lui. Celebra Pasqua anche lui.
Anche lui deve sapere che la risposta alla sua cattiveria e al suo male è, comunque e sempre, l’amore e la bontà. Anche lui deve sapere che solo l’amore, un amore grande è capace di andare oltre il tradimento e far trovare ugualmente il coraggio di dire «amico». Anche lui deve sapere che la logica vincente, ciò che permette davvero una realtà nuova, non è la violenza o il sopruso, ma il perdono, il perdono impossibile, quello che si è capaci di concedere anche a chi ha venduto la tua vita.
Anche Giuda è a tavola… a raccogliere tutto questo… e un po’ l’ha raccolto se è vero che quei trenta denari hanno incominciato a pesargli tremendamente tra le mani e lo hanno spinto a togliersi la vita.
Giuda non rappresenta altro che il peccato… il mio peccato. Anch’io quindi, con il mio limite, con il mio fallimento, con ciò che ha frantumato la mia persona, con il mio cuore ammalato, con quella cattiveria che in questa settimana mi ha chiuso agli altri rendendomi ostile… anch’io ho diritto di stare a tavola con Gesù, di mangiare il Pane e di bere il Vino.
Ho diritto, per conoscere davvero la mia povertà e la mia miseria. Per conoscere che le vie che ho tracciato non conducono alla vita, ma alla morte, per conoscere che ho tradito. Certo, ci vuole del coraggio e, tante volte la nostra giustificazione espressa con un «non mi sento degno», è unicamente una situazione di comodo: è un sottrarsi a un giudizio che Gesù vuol porre sulla nostra vita per indicarci una novità, è un evitare un esame per paura di sentirci dire: «Non hai capito niente!».
Credo che, con Giuda, anch’io sono chiamato a stare a tavola, a riconoscere che, nonostante la mia indegnità, c’è un posto per me. Ho da sapere anch’io qual’è la risposta di Gesù al mio peccato, ho bisogno anch’io di sentirmi dire: «Amico, hai tradito». E sarà questo atteggiamento di bontà, di comprensione, di una verità proposta con forza e amicizia insieme, che potrà guidarmi verso un cammino di conversione che comincia proprio con il sapermi amato mentre sono peccatore.
Ho bisogno anche di ricordare che sono capace di consegnare morte, di uccidere, di vendere l’altro… sempre. Ho bisogno di capire tutta la forza del mio limite e del mio egoismo. Tutto ciò mi può condurre, oltre l’Eucaristia celebrata, ad assumere la mia vita come il luogo nel quale starò attento a non lasciarmi vincere dalle mie forze di male per non commettere verso i miei fratelli gesti di tradimento, di sopruso o di dominio.
L’Eucaristia allora diventerà continuamente sorgente di libertà: mi impedirà di usare il potere e la forza, mi chiamerà sempre a pormi con bontà, conversione, pazienza, davanti agli altri, susciterà in me gesti di solidarietà e attenzione. Così, mentre l’Eucaristia denuncia in me la possibilità di essere Giuda, mi conduce anche a maturare la possibilità di diventare offerta e dono.
Giuda non rappresenta altro che il peccato della mia comunità. Quale comunità sarà mai degna di celebrare l’Eucaristia? Quale comunità può mai dire: «Ecco, l’Eucaristia che celebriamo realizza l’amore che già siamo»? Nessuna, credo. Ogni comunità celebra Eucaristia anche con Giuda, anche con il male che cova nel suo seno, con l’oscurità, con i fratelli e le sorelle che hanno posto gesti contro la comunione.
Credo che così impariamo a crescere come comunità e non come setta, a non diventare esclusivisti dividendo la realtà in buoni e cattivi. Impariamo, celebrando in verità e con Gesù Eucaristia, ad accettare di stare non solo a tavola ma anche nella vita, con il male, con chi sbaglia, con chi non vive onestamente, con chi non dà risposte autentiche alla proposta cristiana. Impariamo… non con mesta rassegnazione, impotenti di fronte a tanto male e cattiveria, ma con la certezza che la risposta a tutto questo diventa esattamente quell’amore e quella bontà che ci permette di sentire «fratelli» queste persone e di annunciare loro che c’è anche un altro modo di stare nella comunità ed è il servizio, la semplicità, la disponibilità.
Chiamati a confrontarci spesso con il male che c’è nella nostra comunità, scopriamo che l’intransigenza, l’innalzare barriere, l’escludere… non serve a nulla e che, molto di più, serve «invitare a cena» per maturare una presenza nuova e un cuore nuovo. Allora vivere nel quotidiano tutto questo, ci conduce ad avere una particolare attenzione per i fratelli che sbagliano, a rinunciare di puntare il dito, di tagliar fuori con i nostri giudizi coloro che sono venuti meno alla fedeltà, in qualsiasi campo e per qualsiasi ragione. L’Eucaristia ci spinge ad avere nei loro confronti un’animo di bontà e di comprensione, ad esprimere loro solidarietà, ad avere pazienza e, soprattutto, ad attenderne con coraggio il ritorno pronti a fare festa.
Capiamo allora che l’Eucaristia denuncia la forza con la quale poniamo i nostri giudizi sugli altri, giudizi molto raffinati, che schiacciano l’altro impedendogli persino di essere diverso.
Denuncia in noi la pretesa che la nostra comunità sia la comunità dei puri. No, non lo sarà mai, non lo potrà mai essere. Sarà sempre campo di grano buono e di zizzania. E così, abbandonati i gesti di violenza di fronte al male, matureremo gesti di pazienza e di attesa fiduciosa e operosa, lottando sì contro ogni forma di male, ma anche attenti a salvare il fratello per non farlo perire con il suo peccato.
Giuda non rappresenta altro che il male della mia storia. Anche questo male deve venire all’Eucaristia, devo incaricarmi di portarlo. Ed è giusto che venga perché abbiamo continuamente da sentirci annunciare la certezza che l’Eucaristia, memoria della risurrezione, lo supera. Ogni settimana celebro quella morte e quella cattiveria che in tutto il mondo ha dominato: ha condotto alla guerra, ha ucciso la vita, gli ha fatto violenza, ha contribuito a scavare il solco tra il mondo dei ricchi e quello dei poveri, ha costruito logiche di paura…
Lo so, questa morte esiste sempre. Ma è proprio per questo che la conduco all’Eucaristia, per sentirmi dire da Gesù Cristo che c’è qualcosa di più forte, c’è la possibilità – anzi la certezza – che la vita trionfi. E ricupero la speranza… speranza che diventa accettare di muovermi in questa storia senza paure e senza fughe perché essa mi appartiene ed è qui che sono chiamato a consegnarmi per favorire il compimento della novità. Ma ricupero anche, io credo, la certezza che come per Gesù, l’unica risposta possibile al male e al tradimento, diventa la bontà e l’amore. La certezza che violenza contro violenza, forza contro forza, non serve a nulla, finirà sempre per generare altra violenza e altra forza.
Imparo ad oppormi al male con la logica della non violenza, della risposta amorosa a chi cerca e fa il male. E tutto ciò non perché sono idiota e impotente… ma perché so della forza del bene e della potenza dell’amore, le sole cose che possono ridisegnare la storia in modo nuovo permettendogli di ritrovare le coordinate della pace, della fraternità e della giustizia.
Allora non ci fa più paura che Giuda venga a tavola con noi.